Prendiamoci cura della Terra

I frutti di Luglio

Il sole di luglio con le sue lunghe giornate permette la maturazione di molti frutti che aiutano uccelli e mammiferi a nutrire le loro nuove “famiglie”.

Passeggiando in aree boscate possiamo trovare un parente stretto dei ciliegi che abbiamo descritto nell’articolo di Giugno. È il Ciliegio canino (Prunus mahaleb), della famiglia delle Rosacee, un albero-arbusto deciduo dell’Europa meridionale, presente in tutte le regioni d’Italia salvo che in Sardegna. Lo si trova dal livello del mare a 800 m circa (in Sicilia raggiunge i 1900 m); è piuttosto comune nell’area delle querce. Molti considerano questa specie pioniera per la sua predilezione per i suoli calcarei, poveri e spesso sassosi e per la sua facilità di vegetare anche in aree esposte e soleggiate, tanto da essere utilizzata per contenere terreni calcarei franosi.

Frutti e foglie di Ciliegio canino (Prunus mahaleb). Foto di Renzo Salvo.

Il Ciliegio canino ha chioma piuttosto folta ed è molto ramoso, con rami spesso spinosi, eretti e flessibili; i fiori, debolmente profumati, sono riuniti in corimbi brevi di 4-12 fiori dalla corolla bianca a 5 petali, con circa 20 stami a filamento bianco ed antere giallo scuro. I frutti sono drupe globose (8-10 mm) nero-rossastre, di sapore amarognolo, con nòcciolo centrale sferico e liscio.
Questi frutti dal sapore per noi sgradevole sono però amati dagli uccelli, che cibandosene aiutano la pianta a disseminare i suoi semi.
Tutta la pianta contiene cumarina, composto aromatico usato nella confezione di essenze per liquori e profumi e nella concia di particolari tipi di tabacco. Il legno stesso della pianta, date le sue caratteristiche aromatiche, viene usato per fabbricare pipe; veniva impiegato pure, grazie alla sua durezza e resistenza, per lavori di tornitura e per la fabbricazione di giocattoli. La pianta selvatica, rustica e robusta, è spesso impiegata come portainnesti per varietà di ciliegi coltivati.

Uscendo dal bosco e dirigendosi sia verso gli incolti e i ruderi che verso i pascoli o le campagne coltivate, dal piano fino a 900 m, troviamo certamente l’Erba morella (Solanum nigrum), un’erba annuale che in climi più caldi (in Italia questo avviene nel Meridione) passa ad un ciclo perenne che le permette il passaggio a suffrutice, cioè con fusti lignificati alla base.
Chiamata anche Solano, Solano nero, Ballerina, Erba mora, è alta al massimo 70 cm e ha un fusto in genere ascendente, che può essere eventualmente prostrato solo nella parte basale.
I fiori, bianchi dal cuore giallo a forma di stella e raccolti in corimbi peduncolati, danno origine a frutti che a maturazione si presentano come dei grappoli pendenti. Ciascun frutto è una piccola bacca di circa 6-7 mm, prima verde e poi nero lucido, divisa in diverse logge che contengono i semi di forma discoidale o reniforme.
In Italia l’Erba morella è diffusa su tutto il territorio (isole comprese) e ha sviluppato molte sottospecie locali, essendo una pianta infestante in grado di danneggiare le colture sottraendo loro azoto e spazio.

Frutti maturi di Erba morella (Solanum nigrum). Foto da Wikimedia Commons.

Come la sua congenere Dulcamara, descritta lo scorso mese, è una pianta pericolosa: contiene glucoalcaloidi tossici come la solanina, mentre nella pianta sono presenti tropeina, rutina, tannini e diversi eterosidi. Le bacche hanno causato molti incidenti ai bambini attirati dalla loro lucentezza. Esse sono mortali per i cani, le pecore e i roditori, tanto che in Francia è detta anche “erba crepa-cane”. Sauri e testuggini, invece, si cibano volentieri delle bacche mature, che per loro hanno evidentemente una minore tossicità, oppure non esercitano la loro azione a causa della diversa fisiologia di questi animali. Per questo motivo in Puglia e in sud Italia, viene spesso chiamata “pomodoro delle serpi”. Anche per gli uccelli le bacche di Erba morella non sono tossiche, a riprova della “parentela” fra rettili e uccelli entrambi “moderni dinosauri”.

È in luglio che matura l’ultimo dei Ribes: il Ribes nero (Ribes nigrum),un arbustoalto fino a 2 metri che ama i terreni sciolti, ricchi di humus e tendenti all’acido; ha fogliame deciduo e fusti ramosi. Le foglie, grandi, piane, picciolate, hanno tre-cinque lobi con l’apice acuto e il margine dentato. I fiori appaiono in primavera, raccolti in racemi pendenti; sono pentameri, di colore verde-biancastro, poco appariscenti. I frutti sono bacche nere globose ricche di semi, che maturano dalla fine di luglio a settembre. Si differenzia molto dal Ribes rosso, descritto lo scorso mese, per il colore, l’aroma, il sapore e la destinazione dei frutti. Le foglie, le gemme ed i frutti sono intensamente profumati per la presenza di ghiandole contenenti oli essenziali.

Frutti maturi e foglie di Ribes nero (Ribes nigrum).

Il Ribes nero spontaneo è ormai rarissimo e lo si trova prevalentemente coltivato a scopo alimentare, ma negli ultimi anni sta prendendo sempre più piede la finalità terapeutica. Viene utilizzato in fitoterapia e gemmoterapia per stimolare le ghiandole surrenali a produrre cortisolo, un cortisone endogeno che aiuta l’organismo a reagire alle infiammazioni.Utilizzato anche per malattie cutanee, fa sì che il cortisolo generi una reazione essenziale ad ogni tipo di stress o lesione.
I frutti di questa specie sono anche alla base della Crème de Cassis (cassis è il nome francese del ribes nero), un liquore a 20% vol con cui si prepara il kir con l’aggiunta di vino bianco.

Chiudiamo questa breve rassegna dei frutti selvatici più noti con due specie di Viburnacee.
La prima si trova nei boschi freschi delle valli, sulle rive di fiumi e stagni, al margine dei boschi umidi, nelle scarpate. Occupa rapidamente ed aggressivamente tutti gli spazi lasciati liberi nelle schiarite, inserendosi come “infestante” anche negli ambienti più antropizzati ed urbanizzati. Preferisce suoli freschi e ricchi di nutrienti e di materia organica decomposta e vive dal piano sino a 1.400 m: è il Sambuco (Sambucus nigra). Un albero, ma più spesso arbusto, alto fino a 10 m, con chioma espansa, densa e globosa; il tronco è eretto, contorto, nodoso e irregolare, molto ramificato fin dal basso, sinuoso e spesso biforcato con rami opposti ad andamento arcuato e ricadente. Caratteristica della sezione dei rami e del tronco è il midollo centrale bianco, soffice ed elastico, costituito da cellule sferiche dalla sottile parete di cellulosa. Le radici, dotate di intensa attività, decorrono in superficie. Le foglie, di colore verde-brillante, sono decidue, lunghe 20-30 cm con lamina imparipennata, composta da 5-7 segmenti ovati ad apice acuminato e margine dentato; se stropicciate, emanano un odore sgradevole. I piccoli fiori, molto profumati, sono riuniti in infiorescenze peduncolate, ombrelliformi che possono raggiungere 20 cm di diametro, prima eretti, poi reclinati; hanno la corolla composta da 5 petali color bianco avorio, talvolta rossastri, ovali; i fiori laterali dell’infiorescenza sono sessili, mentre i terminali sono peduncolati. I frutti sono piccole drupe globose, prima verdi poi viola-nerastre, lucide e succose a maturità; contengono 2-5 semi ovali e bruni, e sono raggruppati in infruttescenze pendule, su peduncoli rossastri.

Frutti maturi e foglie di Sambuco (Sambucus nigra). Foto da Wikimedia Commons.

I frutti maturi sono depurativi e lassativi, contengono vitamine A e C; il succo, come tutte le altre parti della pianta, è utilizzato come fitoterapico. Può essere impiegato anche per tingere le fibre naturali, nelle varie tonalità del viola. Un tempo era impiegato come sostanza colorante per il cuoio e, fino a qualche decennio fa, lo si utilizzava per ricavarne inchiostro; dalle foglie è possibile ricavare un colorante verde e dalla corteccia uno nero.
I frutti ben maturi possono essere mangiati, ma in genere vengono usati per la confezione di marmellate e sciroppi. La bevanda più famosa prodotta con le bacche di Sambuco è la “sambuca romana”.

L’antica “amicizia” fra la nostra specie e il Sambuco è testimoniata dai resti di bacche di Sambuco ritrovati in insediamenti del neolitico! Il suo legno è da sempre conosciuto come materia prima per immanicare badili ed altri attrezzi agricoli, mentre i giovani rami, privati del midollo, hanno fornito a generazioni di bambini ricchi di fantasia, cerbottane e fischietti sonori.
La sua estrema rusticità lo fa apprezzare per qualsiasi intervento di ricostituzione vegetale di terreni spogli o degradati.
Le drupe di Sambuco rappresentano un importante alimento per numerosissime specie di uccelli: dal Colombaccio al Pettirosso, al Codirosso spazzacamino e alla Capinera; dal Merlo alla Cesena e ai Tordi, ai Luì e alle Cince. Anche Storni, Passeri, Fringuelli, Peppole, Organetti, Frosoni e Rigogoli amano molto questi frutti, proprio come specie più grandi come la Ghiandaia, la Gazza e le Cornacchie.

La seconda Viburnacea che matura a fine luglio è la Lentaggine (Viburnum tinus) chiamata anche Viburno tino, Alloro-tino, Laurotino, Laurentino, una pianta legnosa con portamento arbustivo o arboreo diffusa ai margini di boschi di latifoglie, molto comune nella Macchia Mediterranea da 0 a 800 m. Come tutte le specie che compongono la Macchia Mediterranea ha un’elevata rusticità ed è in grado di adattarsi anche ad ambienti con elevata siccità estiva.

Frutti maturi e foglie di Lentaggine (Viburnum tinus). Foto di Andrea Moro.

Il fusto eretto ha rami opposti che danno origine a una chioma densa e regolare. Le foglie, coriacee e persistenti, hanno una lamina di forma ovato-ellittica arrotondata alla base e con apice acuto; di colore verde scuro e lucida nella pagina superiore, è più chiara e tomentosa in quella inferiore. Le infiorescenze sono corimbi con 2 o 3 ordini di piccoli fiori inodori bianchi o rosati. I frutti sono drupe ovoidi di circa mezzo centimetro, di colore bluastro-metallico e lungamente persistenti.

I frutti sono tossici per la presenza di viburnina, sebbene un tempo venissero usati in farmacopea. Attualmente è una pianta di interesse ornamentale per le sue foglie sempreverdi e le caratteristiche infiorescenze a ombrello dalla lunga fioritura. È adatta per essere coltivata anche in vaso o per formare dense siepi rifugio di numerose specie di uccelli, oppure isolatamente per generare effetti coreografici o sulle terrazze per formare siepi di chiusura. Il suo legno, duro e compatto, viene utilizzato per intarsi e per oggettistica.

Crediti
Autore: Anna Lacci è divulgatrice scientifica ed esperta di educazione all’ambiente e alla sostenibilità e di didattica del territorio. E’ autrice di documentari e volumi naturalistici, di quaderni e sussidi di didattica interdisciplinare, di materiali divulgativi multimediali.