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Il pane, i luoghi, le culture

La storia del pane è strettamente legata allo sviluppo della civiltà umana, dagli albori dell’agricoltura fino ad oggi. Non sappiamo con certezza quando il pane abbia fatto la sua comparsa, la prima produzione documentata risale al 2000 a.C. quando gli Egizi capirono l’importanza della cottura a temperature elevate e scoprirono il lievito naturale: un impasto di farina e acqua dimenticato in un locale caldo e umido iniziò a fermentare naturalmente, assumendo una struttura soffice e spugnosa. La massaia egizia anziché buttarlo via lo infornò. Invece del solito pane azimo ottenne un pane più leggero e fragrante, decise così di ripetere l’esperimento e scoprì che mescolando una porzione dell’impasto fermentato con un altro appena formato se ne induceva la lievitazione: aveva scoperto la lievitazione naturale! Dall’antichità ad oggi la lievitazione naturale è stata ampiamente sfruttata dall’uomo per la produzione di pane e prodotti da forno sempre più elaborati. L’impasto acido conferisce una serie di caratteristiche e proprietà nutrizionali peculiari che hanno suscitato nei secoli la curiosità e l’interesse degli scienziati, da Plinio il Vecchio a Louis Pasteur, fino ai giorni nostri.

Il pane è ancora oggi strettamente legato alle tradizioni sia civili che religiose e come tale ha assunto un ruolo di primo piano, fino ad essere sinonimo di cibo, vita e benessere, basti pensare al simbolismo cristiano, all’etimologia di termini come compagno (cum panis: letteralmente qualcuno con cui condividere il pane) o più semplicemente alle centinaia di modi di dire in cui ricorre la parola pane. Ogni popolo ha adattato il pane alle materie prime a sua disposizione: prevalentemente semola di grano duro al Sud Italia, magari con aggiunta di ingredienti locali come olive o pomodori, pane sciocco in Toscana (si dice che i fiorentini per non pagare il sale a Pisa cominciarono a non mettere sale nel pane), pane di farina di segale nel Nord Europa… Il pane è quindi un prodotto fortemente identitario; in Italia se ne conoscono più di 250 tipologie tradizionali, con oltre mille varianti, alcune hanno anche ottenuto riconoscimento e tutela a livello comunitario: il pane di Altamura, la Pagnotta di Dittaino (EN) e il pane Toscano hanno la DOP, mentre sono IGP il pane di Matera, la Coppia Ferrarese e il pane Casareccio di Genzano.

Il consumatore italiano predilige prodotti artigianali, a km 0, a ridotto contenuto in sale e ad alto valore nutrizionale, rivalutando tipicità e tradizione. In questo contesto si riscopre il lievito naturale, un complesso ecosistema in cui le popolazioni predominanti sono lieviti e batteri lattici, la cui biodiversità è espressione dell’ambiente e quindi del territorio di origine ma anche delle pratiche tradizionali adottate, che altro non sono che scelte tecnologiche.

Dall’attività sinergica di questo variegato consorzio microbico si originano una serie di prodotti metabolici (etanolo, anidride carbonica, acido lattico, acido acetico, composti volatili, prebiotici) che conferiscono al prodotto le caratteristiche che lo distinguono dal pane industriale ottenuto dal solo lievito di birra.

Grazie all’attività metabolica delle popolazioni presenti, il pane a lievitazione naturale esibisce una maggiore complessità sensoriale, che ne aumenta la sapidità; ha anche migliori caratteristiche nutrizionali, ad esempio l’indice glicemico, ovvero la biodisponibilità degli zuccheri semplici da esso apportati, è circa la metà del pane industriale, poiché l’acidità inibisce parzialmente la degradazione dell’amido in zuccheri semplici; inoltre i microrganismi presenti consentono, grazie al loro patrimonio enzimatico, una migliore assimilazione dei fattori nutrizionali; l’attività microbica arricchisce inoltre il prodotto di sostanze prebiotiche (esopolisaccaridi) e lo rende più digeribile grazie alla parziale predigestione del glutine, la frazione proteica del pane. Sempre grazie alla maggiore acidità che lo contraddistingue, il pane a lievitazione naturale si conserva più a lungo del pane prodotto industrialmente: il processo di raffermamento (perdita di consistenza e sviluppo di aromi sgradevoli) è più lento e lo sviluppo di muffe e di batteri responsabili dei principali fenomeni degradativi viene inibito.

Sebbene l’impiego del lievito madre determini degli indubbi vantaggi sulle caratteristiche del prodotto finito, si devono tuttavia tener presenti alcuni svantaggi, per lo più di natura gestionale legati all’impiego della madre acida in panificazione, come i tempi lunghi di preparazione rispetto sa quelli previsti dall’impiego del lievito di birra, ma soprattutto la costante necessità di rinfreschi, le successive aggiunte di acqua e farina che servono a conservare e a rinnovare la madre tra una produzione di pane e l’altra ma rendono la diffusione del lievito naturale possibile per lo più in contesti artigianali.

Bibliografia

M. Gobbetti and M. Gänzle (eds.), Handbook on Sourdough Biotechnology, DOI 10.1007/978-1-4614-5425-0_2, Springer Science+Business Media New York 2013. Chapter 1 History and Social Aspects of Sourdough. Stefan Cappelle, Lacaze Guylaine, M. Gänzle, and M. Gobbetti.

Zambonelli C., Tini V., Giudici P., Grazia L. Microbiologia degli alimenti fermentati. Edagricole-New Business Media (2001).

 

Crediti

Autore: Chiara Sanmartin. Ricercatrice in Tecnologie Alimentari presso l’Università degli Studi di Pisa. Titolare del corso di “Composizione e Analisi dei prodotti alimentari” nell’ambito del Corso di Laurea Magistrale in “Biosicurezza e qualità degli alimenti” – Interdipartimentale Scienze Agrarie e Scienze Veterinarie di Pisa.